AI Art,  Arte,  Cultura,  Metaverso

L’arte AI generated e il dibattito sull’autorialità

Negli ultimi anni, la scena artistica internazionale ha visto l’affacciarsi di un nuovo, enigmatico protagonista: l’intelligenza artificiale. Gli strumenti generativi come DALL·E, Midjourney, Stable Diffusion e molti altri hanno reso possibile la creazione di immagini, testi, musica e video a partire da semplici istruzioni testuali, i cosiddetti prompt. In pochi secondi, algoritmi sofisticati trasformano parole in immagini complesse, spesso sorprendenti, talvolta inquietanti. Con l’irruzione di queste nuove possibilità creative, il dibattito sull’autorialità artistica è tornato al centro della scena, sollevando domande antiche in una veste completamente nuova: chi è davvero l’autore di un’opera generata da AI?

Per comprendere la portata di questa trasformazione, occorre tornare a riflettere su cosa intendiamo, in fondo, per “autore”. Nei secoli, il ruolo dell’autore ha assunto significati diversi. Nell’immaginario romantico, l’autore era il genio ispirato, capace di attingere dal proprio io interiore per generare opere uniche, espressione della sua irripetibile soggettività. In epoche successive, con l’avvento della semiotica e della critica post-strutturalista, questa concezione si è incrinata. Roland Barthes dichiarava la “morte dell’autore”, sottolineando come il senso di un’opera non dipenda più da chi l’ha creata, ma da chi la interpreta. Altri movimenti artistici, come Fluxus o l’arte concettuale, hanno poi spostato l’enfasi dal gesto creativo individuale al processo, alla partecipazione collettiva, alla dimensione performativa.

L’intelligenza artificiale, però, sembra porsi in modo ancora diverso. In un certo senso, l’artista che lavora con l’AI non plasma direttamente la materia, ma costruisce istruzioni, orienta traiettorie, seleziona esiti. Il prompt diventa una sorta di nuova scrittura creativa, a metà strada tra la poesia, il codice e la sceneggiatura. Ma è sufficiente questo per rivendicare l’autorialità dell’opera? Oppure l’algoritmo, con la sua capacità autonoma di generare combinazioni imprevedibili, si configura come un co-autore? Alcuni teorici propongono proprio questa visione: un’alleanza creativa in cui l’umano fornisce l’intenzione e la macchina esplora lo spazio delle possibilità.

Tuttavia, questa idea incontra un nodo difficile da sciogliere: l’intelligenza artificiale non possiede coscienza, intenzione o consapevolezza estetica. Non desidera comunicare alcun messaggio, non ha vissuto esperienze, non prova emozioni. Genera, calcola, elabora pattern secondo regole statistiche apprese da immense quantità di dati preesistenti. Il suo “gesto creativo” è quindi essenzialmente algoritmico, non esperienziale. In assenza di intenzionalità, è lecito attribuire ad essa la paternità dell’opera?

Proprio qui, però, emerge un punto cruciale che spesso viene trascurato nel dibattito: è sempre l’umano a guidare il processo creativo con l’AI. Se l’algoritmo non ha intenzione, è l’artista che la imprime. È l’uomo a scegliere i dati di partenza, a decidere il tono, lo stile, l’atmosfera, ad affinare il prompt come un regista dirige una scena, come un pittore sceglie i colori e i pennelli. L’AI, in questa prospettiva, non è altro che uno strumento sofisticato, potente quanto lo furono il pennello per il pittore rinascimentale o Photoshop per il fotografo contemporaneo. Lo strumento non è mai neutro, ma è sempre manipolato da una mano, da uno sguardo, da una visione.

Del resto, anche la creatività umana funziona, sotto certi aspetti, in modo analogo al meccanismo delle intelligenze artificiali. Il nostro cervello immagazzina esperienze, immagini, letture, ricordi, emozioni vissute; raccoglie dati lungo tutto l’arco della nostra esistenza. Quando creiamo qualcosa, attingiamo a questo patrimonio sedimentato, rielaborando frammenti del nostro vissuto e della nostra cultura. Una visita a un museo, uno studio di storia dell’arte, un viaggio, una conversazione, una suggestione possono riemergere sotto forme nuove, inedite, in un processo creativo che continuamente fonde memoria e innovazione.

In questo senso, sia il cervello umano che l’AI possono essere visti come sistemi che combinano dati preesistenti. Ma qui si apre la differenza fondamentale: l’uomo possiede intenzionalità, coscienza, sensibilità incarnata, capacità di deviare dalle regole, di cercare l’errore fecondo, di attribuire significato, di assumersi la responsabilità dell’opera prodotta. L’AI non sa perché crea. Non sa che sta creando. Non prova emozioni né gioia per il risultato, né frustrazione per il fallimento.

Il problema si complica ulteriormente quando si entra nel campo dei diritti d’autore. In molte legislazioni, il copyright richiede un atto creativo umano. Ma se un’opera nasce da un prompt generato da un individuo e rielaborato da un algoritmo addestrato su milioni di immagini altrui, chi ne detiene i diritti? Il prompt engineer? Il programmatore del modello? L’azienda che possiede il software? O, forse, nessuno? Si sono già aperti i primi casi giudiziari, soprattutto negli Stati Uniti e in Europa, proprio su questo delicato terreno. In parallelo, emerge anche un’altra questione spinosa: gli algoritmi si nutrono di database alimentati da opere di artisti viventi o scomparsi, spesso senza il loro consenso. Esiste quindi un rischio concreto di appropriazione indebita e di riproduzione non autorizzata di stili, tecniche e contenuti prelevati indiscriminatamente da archivi online.

Al di là degli aspetti giuridici, il fenomeno dell’arte AI generated apre nuove prospettive di creatività. Alcuni artisti vedono nell’intelligenza artificiale un’estensione del proprio linguaggio espressivo, come una tavolozza ampliata. Altri vi riconoscono un nuovo orizzonte estetico, dove la curatela diventa il vero atto artistico: scegliere i prompt, intervenire nelle varianti, affinare l’immagine, decidere cosa mostrare e cosa scartare. Si configura così una nuova figura d’autore, più simile a un regista che orchestra un flusso di possibilità, piuttosto che a un demiurgo che plasma ogni dettaglio.

In questo contesto, il prompt engineering emerge come una vera e propria arte emergente: la capacità di dialogare con la macchina attraverso il linguaggio naturale, di saper interrogare l’algoritmo per orientarne la produzione in direzioni significative, suggestive, innovative. L’artista diventa un mediatore, un interprete, un artigiano di possibilità computazionali.

Non è la prima volta che la tecnologia scuote le fondamenta dell’arte. Già nel XX secolo, con l’arte generativa e programmata, pionieri come Harold Cohen e Vera Molnar avevano esplorato il confine fra algoritmo e gesto artistico. Ma oggi, con la potenza dei modelli generativi contemporanei, la questione assume una scala radicalmente nuova.

Alla fine, forse la vera sfida non sta tanto nello stabilire rigidamente chi sia l’autore, ma nel riconoscere che l’autorialità stessa sta cambiando natura. Non è più un’identità fissa, ma un processo fluido, distribuito, condiviso. Un territorio ibrido in cui l’intelligenza umana e quella artificiale coabitano, contaminandosi reciprocamente. In questo spazio intermedio si aprono domande che riguardano non solo il diritto, ma anche la filosofia dell’arte, l’etica e persino la nostra idea di creatività.

Il dibattito sull’arte generata da intelligenza artificiale è, in fondo, il sintomo di un passaggio epocale: stiamo forse imparando a pensare la creazione artistica non più come l’espressione solitaria di un io, ma come il risultato di una rete complessa di relazioni, algoritmi, dati, intuizioni e scelte. Una nuova forma di autorialità diffusa, ancora tutta da esplorare.

 

Please follow and like us:
error
fb-share-icon
Translate »
Need Help?
Social media & sharing icons powered by UltimatelySocial